Cervinara-Gli amici della montagna Partenio

Il Brigantaggio sul Partenio

Brigantaggio a Cervinara

Il 29 e il 30 novembre del 1860 gli abitanti di Cervinara insorsero contro il governo piemontese, dando inizio al brigantaggio post-unitario del Partenio e della Valle Caudina. Ma Cervinara era già nota alle forze dell’ordine per i fatti seguiti al 1848. La stessa insurrezione napoletana del 15 maggio era stata organizzata a Cervinara da Nicola Nisco di San Giorgio del Sannio nella setta carbonara “ La Costanza”. L’agitazione in Valle Caudina aveva assunto l’aspetto di una rivendicazione, portando ad un nuovo tentativo di appropriazione delle terre quel 10 settembre, fomentato – scrive Cioffi – da elementi borghesi al grido di “Viva il comunismo, Viva la repubblica, ci dobbiamo dividere le robe altrui, Vogliamo dividerci i terreni”, accompagnato da colpi di fucile. Protagonisti ne erano i fratelli Verna, Pasquale Del Balzo, Giovanni Gallo, Alessio Vaccariello, Crescenzo Taddeo, Giuseppe Perone, Nicola Capparelli e Francesco De Marco. L’elezione di Bernardo De Bellis a capo provvisorio della locale Guardia Nazionale – ci ricorda Vincenzo Cioffi – aveva già provocato un aspro conflitto che il comandante della Polizia, Giovanni Sbordone, non aveva esitato a definire “guerra civile” nel rapporto del 9 aprile 1849. Tutti elementi che sarebbero risultati scintille per il brigantaggio. Si cominciò con le piccole bande capeggiate da Andrea De Masi di Bucciano, più noto come Miseria, e quelle dei fratelli Giovanni e Tommaso Romano di Limatola, fino alla grande ammucchiata di decine e decine di uomini e donne che andarono ad ingrossare le file dell’esercito fuorilegge di Cipriano La Gala, il feroce criminale di Nola evaso dal carcere di Castellammare insieme al fratello Giona e ad altri detenuti, che contava oltre 500 seguaci.

Ci è nota l’insurrezione di Cervinara del 29 e 30 novembre 1860, che ebbe per premessa la rivalità tra alcune famiglie di possidenti – ricorda Vincenzo Cioffi – fra i quali i quattro fratelli Giuseppe, Donato, Luigi ed Angelo Doria che complottarono con Giovanni Sacco, Angelo Romano, Giuseppe Cioffi e Tommaso Taddeo per vedersi riconosciuta la “patente” di nobiltà. Il 29 novembre, capitanata dal sarto Domenico Cioffi e dai pastori Elia e Felice Taddeo, “un’orda di contadini si gittò in paese”, dirigendosi verso la sede della Guardia Nazionale. L’intervento delle truppe garibaldine verso sera, aveva già fatto prendere la via dei monti ai promotori della rivolta. Non erano mancati i primi morti innocenti e 40 furono gli arrestati. Il comportamento dei Garibaldini in quelle prime ore fu tremendo.Gia all’arrivo nella notte del 30 novembre si trovarono in Piazza Trescine dove un uomo montava di sentinella sotto il Municipio. I garibaldini per capirne l’orientamento politico gli gridarono “ W Garibaldi” ma lui rispose “W Francesco II” e a quel punto una scarica di fucili lo colpì. L’uomo agonizzante ripetè “ W Francesco II”. Non si conosce il nome di questo eroico Cervinarese. Accampatisi nella Chiesa del Carmelo non rispettando il luogo spararono contro affreschi e statue, per iniziare poi tra le frazioni di Cervinara, operazioni di razzia e arresti grazie a ruffiani e spioni che fecero i nomi . Violenze sui cittadini e soprattutto sulle donne si seguirono in quelle ore di rastrellamento, sequestro di animali e cibo, uccisioni e sevizie misero i Cervinaresi in condizione di difendere il poco che avevano rispondendo anche al fuoco. Fu così che a Ioffredo da uno scontro a fuoco con alcuni contadini persero la vita il garibaldino Francesco Mancini di Molfetta e un povero uomo anziano locale che per curiosità si era affacciato all’uscio della porta di casa, trovandosi al centro del conflitto a fuoco.( dal diario del Garibaldino A. Binda).

In meno di un anno le comitive brigantesche erano cresciute in numero ed aggressività, saccheggiando di tanto in tanto i paesi a valle del Partenio. I briganti erano soliti mandare un “biglietto di richiesta” ai galantuomini dei paesi della zona per avere armi, cibo e denaro. Pena: rapimenti, orecchie mozzate, gambizzazioni, uccisioni. Chiaramente chi spediva da mangiare alla banda doveva stare attento a non farsi scoprire finendo nella lista nera della Guardia Nazionale come manutengolo o favoreggiatore. Fu il caso di alcuni componenti la famiglia Cecere di Ferrari, località dove già erano stati uccisi Saverio Sorice e la moglie Gelsomina Cioffi e il figlio, che avevano aiutato la banda di Fuoco e Pace. La Guardia Nazionale effettuò anche degli arresti, come per Pasqualina Varrecchione, diventata druda del capobrigante Pico, o delle sorelle Moscatiello, alla contarda Grottola, drude del Fuoco , e di altri 8 manutengoli. In altri casi non mancarono delle scarcerazioni, come per Vincenzo Sacco, inizialmente accusato di essere un manutengolo della Banda Fuoco. Le cose erano però peggiorate con l’arrivo di La Gala, nonostante i rastrellamenti di Carabinieri e Bersaglieri piemontesi. Il feroce capogrigante che si spostava indisturabato sui monti, muovendo richieste a destra e a Manca, dalla Valle Caudina al Vallo Lauro Baianese. “Stimatissimo Signor Don Gaetano – scriveva La Gala ad un possidente firmandosi “Capo della Commitiva” – vi prego di mandarmi qualche cosa per questa oggi perché ci troviamo senza un grano perciò vi prego per titolo di carità, e potete consegnare alla presente. Si scoprì poi che quella lettera poteva essere falsa, avvalorando la tesi che altri malandrini, in nome dei briganti, incassavano soldi per conto proprio. Dopo aver scorrazzato per il Vallo di Lauro, La Gala decise – male – di fuggire sulle montagne del Partenio. “Era la banda del Cipriano – scrive Carlo Guerrieri Gonzaga – cresciuta ben presto di parecchie centinaia di seguaci. Non v’era villaggio tra Caserta e Nolada un canto, Benevento e Avellino dall’altro, che non gli avesse fornito il suo contingente”. E dal Nolano, la banda si affacciò sui monti di Caserta per i poggi di Cancello, il monte Felino, il piano Majuri, i Cigli d’Avella e il Campo di Summonte. Airola, Arpaia, Arienzo, Cervinara, Montesarchio, San Martino… non ci pensò due volte ad attaccare i militi. 10 soldati morti dei due drappelli del distaccamento di Cervinara, al comando del Generale Pinelli con sede a Nola, furono il bigliettino da visita di La Gala. Disfatta tragica anche per la Guardia Nazionale di San Martino, il 29 ottobre 1861, che vide perire un ufficiale e cinque uomini. Non mancarono gravi accuse all’allora sindaco Francesco Del Balzo per presunte responsabilità colpose nell’eccidio. Strage che precedette di poche ore l’arrivo dei nuovi Generali (Lamarmora sostituiva Cialdini a Napoli; Franzini, Pinenelli a Nola) che portarono a Nola perfino una sezione di artiglieri di montagna e cavalleggeri di Lucca, con immediate perlustrazioni generali del 180 battaglione tra Cancello, Arienzo, Arpaia, Cervinara, Montesarchio, Benevento, insieme ai distaccamenti del 120 di linea. Ma fu l’approssimarsi del generale inverno, il vero nemico. Autentici criminali – scrive Francesco Barra – brutale e rozzo Giona, assai più abile ed evoluto Cipriano, i due fratelli che vantavano gravissimi precedenti penali prima del 1860, non possono aspirare ad un movente politico, né sociale. Sarebbero rimasti insomma sicuramente in carcere se non avessero accettato la strumentalizzazione borbonica, in cambio della libertà, con l’avvento del nuovo Stato unitario, che gli aveva fornito protezioni e finanziamenti occulti. Ma La Gala reastava un criminale, un affiliato alla camorra. Un bandito urbano – conclude Barra – più che rurale; un camorrista, più che un brigante. Era comunque un furbo che prendeva continuamente in giro i soldatini piemontesi, scampando ai loro agguati in tutta la Valle Caudina, come quella volta che scapparono su per lo scosceso vallone di Cervinara, inseguiti dai bersaglieri, e poi giù, per il dirupo, lasciando vesti ed armi. Quel giorno, per esempio, era stato ordinato alle guardie del paese di piantonare il burrone, ma al momento oppurtuno non vi si trovò nessuno, rinchiudendosi i militi nelle proprie case, mentre i briganti, durante la precipitosa fuga dopo il saccheggio, furono per poco tempo inseguiti solo dagli spaesati bersaglieri che non conoscevano la zona. Era il 14 dicembre 1861, il giorno dell’ultimo saccheggio. La banda di La Gala, poche lune prima di essere annientata dai bersaglieri del Generale Franzini sul Piano Majuri, un pianoro fra monti di Avella e Cervinara, era riuscita a saccheggiare le frazioni di Castello, Joffredo e Ferrari. Il 18, infatti, fu sorpresa ed attaccata alla baionetta. Una quarantina i malandrini che rimasero a terra, qualche storico parla di 31 uomini uccisi sul piano Cornito. Cipriano, Giona e i superstiti riuscirono però a scappare a Valle, cercando scampo sul Taburno. Ma la loro disfatta fu sancita tra Carvinara e Montesarchio, con un intervento del distaccamento del VI Fanteria, comandato da Gaetano Negri, futuro storico, senatore e sindaco di Milano. I due, ancora una volta, sciolta la banda, riuscirono a fuggire definitivamente, riparando nello Stato Pontificio, dove dilapidarono la ricchezza male acquisita. (Un’altra parte del bottino, abbandonata durante il fuggi-fuggi, sarebbe poi stata ritrovata appena qualche decennio fa, in un terreno privato, nel corso dello scavo di un pozzo, donando improvvisa ricchezza al fortunato.) Capito insomma che la partita era ormai persa, si diedero alla pazza gioia e ai divertimenti, mentre sulle montagne irpine non rimanevano a battersi che pochi disperati, destinati a cadere sotto i colpi della represssione. Due anni più tardi decisero di riparare in Francia, non sentendosi sicuri più neppure a Roma, imbarcandosi a Civitavecchia sul piroscafo “Aunis”. Gli andò male e, il 18 luglio 1863, mentre la nave francese diretta a Marsiglia faceva sosta a Genova, furono arrestati, non senza conseguenze diplomatiche, seriamente compromesse tra Italia e Francia. Giona e Cipriano La Gala riuscirono a far parlare si se ancora per molti anni.Il processo si svolse nel febbraio-marzo 1864 davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere, ed ebbe risonanza internazionale con la presenza della stampa estera. I fratelli La Gala vennero condannati a morte, mentre i loro compagni, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo insieme ad essi catturati sulla nave, se la cavarono chi con i lavori forzati, chi scontando una pena a venti anni. Giusto per chiudere l’incidente diplomatico con la Francia, però, l’Italia dovette commutare la pena, degli ormai famosissimi briganti, con l’ergastolo.
Documenti sulla Banda La Gala
RELAZIONE AL PREFETTO DI AVELLINO

Cervinara 20 Dicembre 1861

DAL GIUDICE REGGIO
DI CERVINARA

Signore

Per l’atto dei Bersaglieri di Arienzo e della compagnia qui stanziata, davavi un assalto ai briganti diretti da Cipriano la Gala……….

A SEGUITO DELLE OPERAZIONI SVOLTESI NELLA NOTTE DEL 18 DICEMBRE 1861 SI RACCONTA DELLO SCONTRO CON LA NUMEROSA BANDA DI CIPRIANO LA GALA IL QUALE RIUSCÌ A FUGGIRE TRASCINANDOSI FINO ALLA LOCALITÀ DI SFERRACAVALLO GIA’ ALLORA TRE PONTI, DOVE FURONO PRESI ALTRI QUATTRO O CINQUE UOMINI DELLA BANDA CHE POI VENNERO FUCILATI AL COMUNE DI MONTESARCHIO. MA CIPRIANO E IL FRATELLO GIONA CON ALTRI RIUSCIRONO A SCAPPARE. DI ALCUNI SEQUESTRATI LIBERATI E TENUTI SUI MONTI SI SEPPE CHE FURONO TRATTATI BENE. IL RECLUSI CHE FUGGIRONO DOPO L’ASSALTO DELLE CARCERI ASSALITE GIORNI PRIMA DAI BRIGANTI (IN LOCALITA’ FERRARI), SONO STATI RIPRESI TUTTI DI CUI ANCHE IL DETENUTO GALLO, ALCUNI SPONTANEAMENTE COSTITUITISI, SOLO UNO UCCISO NEI COMBATTIMENTI PERCHÉ ARMATO.

RELAZIONE AL PREFETTO DI AVELLINO

Cervinara 17 Dicembre 1861

Signore,

ieri sera verso l’ora mezza della notte, Cipriano la Gala in numero di circa duecento uomini va ad invadere i villaggi di Castello, Ioffredo e Ferrara ( Ferrari) di questo Comune, prendendo dai venditori, dai particolari…..sui viveri.. serre un ampia provvista…dicevano che erano digiuni da due giorni per causa di un loro compagno che si era presentato, come da rapporto di ieri, che aveva rilevato gli individui che gli fornivano i viveri.quindi per trarre vendetta assalirono le prigioni supponendolo in carcere, e con degli strumenti abbatterono i cancelli e vi entrarono. Non avendo trovato il compagno che cercavano rubarono quanto apparteneva ai detenuti e……….la moglie del Custode, che dopo averla battuta e ……….la mandarono via. Le rassegno Sig. Prefetto che il poco numero di truppa concentrato nel solo villaggio Trescine…gli altri villaggi prossimi ai monti, forniti di ogni guarrantigia(?) in maniera che i Briganti possano padroneggiare senza resistenza alcuna.
Adempio al mio dovere partecipandole quanto di sopra e pregandola ……………………..

Il Sindaco
Giovanbattista De Bellis

ALCUNI SEQUESTRI

Il 7 luglio 1862 sequestro della persona di Carlo Mainolfi di anni 11 –

Imputati:
1. Antonio del Mastro detto “ Zappatore” di Avella
2. Pasquale Martone di Clemente di Cervinara
3. Angelo Taddeo di Domenico di Cervinara
4. Luigi Taddeo di Angelo di Cervinara
5. Ignoti

Banda Armata con oggetto di distruggere e cambiare la forma di Governo- Grassazione qualificata e sequestro della persona di Carlo Mainolfi.
Somministrazione di Viveri e banda Armata

I Fatti:

I briganti Antonio del Mastro (Zappatore) e Pasquale Martone convinsero i parenti di Felice Taddeo (noto capo banda) Angelo Taddeo figlio di Luigi Taddeo di professione venditori di frutta ad allontanare a fine del sequestro il piccolo Carlo Mainolfi. Il giovane Angelo Taddeo quasi coetaneo di Carlo avrebbe convinto il piccolo Mainolfi a seguirlo presso la sua abitazione per fargli vedere degli uccelli che poi gli avrebbe regalato. Non appena furono presso via Mainolfi in Cervinara il piccolo Carlo si trovò di fronte circa 40 briganti. Il sequestro durò 25 giorni e furono chiesti 2300 ducati per il rilascio oltre la fornitura di biancheria, oro e vettovaglie. Il giovane Angelo e il padre Luigi furono rinchiusi nelle carceri di Ferrari adiacenti al Palazzo Marchesale in direzione del ponte. A quel tempo non si poteva dire di no ai briganti e non era facile vivere una vita onesta e serena. Il clima era di diffidenza e paura. I tradimenti erano all’ordine del giorno anche tra i Briganti .

Il 28 agosto 1862 sequestro della persona di Pasquale Valente

Imputati:
1. Francesco Iuliano
2. Felice Taddeo Fu Orazio
3. Domenico De Blasio fu Vincenzo
4. Nicola Marchese fu Francesco
5. Giuseppe Cillo fu Francesco

Grassazione qualificata e sequestro della persona di Pasquale Valente.
Somministrazione di Viveri e banda Armata

Dai testimoni risulta che Pasquale Valente stava lavorando sul terreno sito in località Cesa (da scesa di Via Campo Sega) quando fu accerchiato da alcuni uomini che lo prelevarono e lo condussero verso i monti. Per il suo riscatto furono chiesti 2000 ducati. I soldi tardarono ad arrivare e per questo alla famiglia fu fatto recapitare il suo orecchio. Poichè il De Blasio era amico di alcuni familiari del Valente fece da mediatore poi tradì i compagni forse perché i briganti erano alle strette. Si costituì alle forze dell’ordine e denunciò il luogo dove era tenuto nascosto il Valente. All’arrivo dei soldati i Briganti si diedero alla fuga e il Valente fu liberato.

Il 23 maggio 1864 sequestro di Federico Verna delegato di Pubblica Sicurezza.

Federico Verna era un membro della nota famiglia Verna che durante i moti rivoluzionari del 1848 e precisamente il 15 maggio fu accusato con altri familiari e amici come i D’orsi, Del Balzo, Finelli, Condorsi, De Nicolais, Cioffi Pasquale, Lapati, De Bellis, D’Oria, Russo, Marro, Imbriani, Vitagliano, Taddeo Crescenzo, Lombardi, Iavarrone, Perone, D’Onofrio, Canfora, Esposito, De Marco ed altri di cospirazione contro lo Stato.
Il Reato era di Banda Armata diretta ad invadere in Cervinara il posto militare della Guardia di Pubblica Sicurezza e disarmarla . Con l’arrivo dei Savoia molti di questi personaggi furono premiati perché antiborbonici e stabiliti a vari incarichi di amministratori.

La sera del 23 maggio Federico Verna si conduceva da Piazza Trescine verso la sua abitazione in Pantanari quando appena dopo le ultime case di via Maranni fu fermato da alcuni soggetti e costretto a seguirli. Il riscatto fu di 200 ducati oltre varie vettovaglie, ma poi furono chiesti altri soldi. La famiglia dovette chiedere un mutuo al riconosciuto parente Del Balzo Francesco di San Martino .

Il mattino del 2 dicembre 1861 al Sindaco venivano presentati 10 proclami dei quali uno a stampa, affissi nel casale dei Salomoni, dove si invitava la popolazione alla rivolta contro il Sovrano Straniero e a rinunciare alla leva di soldati, e ad affiliarsi alla banda del Cipriano La Gala per difendere i Borboni.

Quando il 23 dicembre 1861 dopo la disfatta dei Briganti di Cipriano La Gala, molti sovversivi si costituirono e cominciarono le confessioni. Infatti Francesco Cioffi che il 4 luglio 1862 si era costituito al Brigadiere Francesco D’Onofrio, nella speranza di avere clemenza per il gesto, denunciò che i manifesti furono affissi da Martone Pasquale, Saverio Piacente ed Antonio Marro i quali prima si erano recati nel Comune di Frattamaggiore dove avevano arruolato 52 uomini al servizio del La Gala. Il 22 luglio 1862 Saverio Piacente ed Antonio Marro fu Francesco furono arrestati. Un certo Sellitto Francesco fornì un alibi ad Antonio Marro .

Sequestro dei fratelli Giovanni, Bernardo e Felice Valente
Giovanni, Bernardo e Felice Valente vengono sequestrati nel territorio di Cervinara. I primi due vengono rilasciati dopo il versamento del riscatto di ducati 508. Il terzo continua ad essere tenuto in ostaggio perché la famiglia non ha provveduto a spedire la grossa somma richiesta dai briganti. I due, dopo la liberazione, vengono interrogati dal Delegato Mandamentale di Pubblica Sicurezza. Essi asseriscono che i malviventi erano in otto, tutti armati di fucili a due canne, revolver e pugnali, e che erano bene informati di tutte le operazioni della Truppa. Per questo motivo la forza pubblica non riesce ad incontrarli e a distruggerli.
Dopo poco tempo nonostante la famiglia abbia provveduto al pagamento della soma di ducati 12750, i briganti “ barbaramente uccidevano Felice, il cui cadavere venne ritrovato putrefatto in località Prolasi. (detta a “ preta e Felice Valente”)

Sequestro di Michele Negro e della Moglie Ferraro Domenica insieme a Puglia Carolina
Una comitiva di circa 15 briganti bene armati penetrarono nella casa di Michele Negro, di conduzione carboniere, sita nell’abitato di S. Paolina
( Frazione di Cervinara) e lo sequestrano, unitamente alla moglie, Ferraro Domenica e a Puglia Carolina, e li conducono sulle montagne. Subito dopo liberano la Puglia. Strada facendo, il Negro riesce a fuggire. Si presente al Delegato di P.S. e dichiara di aver visto con i briganti un prete ed una giovinetta, anch’essi catturati.

Le Brigantesse di Cervinara

CAROLINA CASALE

Contadina Cervinarese si trovò a fare da vivandiera e guardiana alla Banda di Ciccone , Pace e Marino per amore di Michele Lippiello di Roccamonfina brigante, di cui era incinta. Non potendolo sposare perché riconosciuto come aggregato alla banda Ciccone e Pace, il fidanzato una notte fece irruzione nella pagliaia dove abitavano i familiari di Carolina, e la costrinse a seguirlo. Così Carolina Casale si aggregò anche’essa alla banda e conobbe la compaesana Giocondina Marino. Da allora la Casale partecipò alle azioni della banda, vestita da uomo, agli agguati, ai sequestri. Il fratello Pasquale, altro aggregato, si era costituito, convinto da alcuni conoscenti di Cervinara, che, per questo suggerimento, furono uccisi dal capo banda Alessandro Pace. Ella, non esitò a buttarsi nella mischia di Monte Pipirozzi (Roccamonfina) contro la truppa e non rimase estranea all’omicidio di Giuseppe Di Francesco, a Mignano, perché sospettato di tradimento. In un successivo combattimento il 30 marzo 1868 a Monte Cavallo, fu catturata con gli altri. La Corte di Appello di Napoli la condannerà per associazione a delinquere, estorsione, sequestro di persona, e omicidio premeditato. Condannata a 15 anni. Quando fu scarcerata riprese il mestiere di carbonaia; il suo Michele Luppiello morì in conflitto a fuoco.

GIOCONDINA MARINO

Anche Giocondina Marino nata a Cervinara il 1842 e sorella del capo brigante Michele Marino morto ( 11 aprile 1868 durante un conflitto a fuoco a Presenzano) fu rapita dal capo banda Alessandro Pace mentre lavorava nella carbonaia di Valleprata. Partecipò alle numerose imprese di questi tra Caserta, Campobasso, Isernia, Piedimonte, Caiazzo. Era diventata una furia di guerra nonostante incinta al quarto mese. Fu catturata insieme alla Casale Carolina e ad un’altra brigantessa Maria Capitano da S.Vittore compagna del brigante Luongo che fu ucciso in combattimento.

Altre brigantesse di Cervinara accusate di Somministrazione di Viveri e Banda Armata

Nicoletta Marra
Maria Giovanna Vele
Marianna Fucci
Giovanna e Caterina Curiello
Petruccia Liberti
Maria Girardi
Grazia Finelli
Palumbo Carmine

Uomo fidato della banda di Felice Taddeo definito “il solitario anacoreta dalla carabina infallibile” fu imprigionato in un sotterraneo che il popolino battezzo il carcere di Palumbo. Di lì evase, e tentò la fuga verso i monti, ma una scarica di fucili lo stese nella polvere a metà strada di via Renazzo. Fu catturato a seguito di una soffiata che condusse le guardie presso un’abitazione dove aveva trovato ristoro e piaceri in una notte di freddo.

A Sinistra
Brigante Mustaccio Pietro
della Banda di Carmine Crocco
poi si aggregò a Felice Taddeo

A Destra
Foto in gruppo di briganti della Banda Di Felice Taddeo, Pasquale Martone, Giuseppe Cillo
In ordine:
D’Amato Nicola
Luciano Alfonso
Cillo Michele: Fratello di Giuseppe era un soldato della Guardia Regia che per fare giustizia ad una donna di Cervinara “offesa” da un piemontese usò le armi uccidendolo. A seguito di questa vicenda si diete alla latitanza. Morì fucilato ad AVELLINO

I Fratelli La Gala Cipriano e Giona
Cipriano La Gala a destra della foto nacque a Nola nel 1834.
Nel 1855, la Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro condannava lui e suo fratello Giona, di lui minore di due anni, a vent’anni di lavori forzati per furto qualificato con tutte le aggravanti. Invece erano stati gli assassini di Andrea Nappi, ma per carenza di prove tale capo di imputazione cadde.Vennero mandati al bagno di Nisida e poi alle carceri di Castellamare. A Nitida conobbero un altro recluso, chiamato De Cesare Francesco, col quale Cipriano litigò e fu la causa della sua mala sorte. Infatti alcuni anni dopo si incontrarono di nuovo sul Monte Taburno e il De Cesare fu ucciso e mangiato dall’intera Banda La Gala.
La rivoluzione del 1860 generò un periodo di anarchia amministrativa della quale permise ai più efferrati malfattori di essere liberi compresi i La Gala.
Arruolati dai Borboni con tutta la loro banda di criminali, iniziarono la guerriglia contro il nascente regime, ma anche vessando e sequestrando tanta povera gente.
Il 23 Agosto 1861 in località Vallone Conca persero la vita il Sergente Vettori e il soldato Angelo Bianchi a seguito di una imboscata.
Il 29 Ottobre 1861 si scontrarono ancora con la Banda La Gala, la Guardia Nazionale a San martino V.C. . Sei i morti di cui un Ufficiale che si aggiunsero ai 10 dei due drappelli del Distaccamento di Cervinara, dei mesi precedenti al comando del Generale Pinelli.
Il 18 dicembre l’intera banda fu sorpresa, accerchiata ed attaccata alla baionetta in località “ Cornito” di Cervinara. Persero la vita circa 31 briganti.
I fratelli La Gala riuscirono a fuggire nello stato Pontificio, dove dilapidarono la ricchezza male acquisita. Imbarcandosi alcuni anni dopo da Civitavecchia sul piroscafo Francese “Aunis” diretto a Marsiglia, furono fermati a Genova dove venne fuori la loro identità con conseguenze diplomatiche tra la Francia e l’Italia.
Al processo i fratelli furono condannati a morte. Poi commutatala pena in ergastolo e lavori forzati. Ciprianofu recluso al Reclusorio della Foce a Genova e Giona in quello di Portoferraio fino alla morte.

Felice Taddeo
Il 29 e il 30 novembre 1860 a seguito della falsa notizia del ritorno di “Franceschiello”a Napoli, gli abitanti di Cervinara insorsero contro il governo piemontese. La notte del 29, capitanata dal sarto Domenico Cioffi e dai pastori Elia e Felice Taddeo ( padre e figlio) “ un’ orda di contadini si gittò in paese” dirigendosi verso la sede della Guardia Nazionale in piazza Trescine. L’intervento delle truppe garibaldine verso sera, aveva già fatto prendere la via dei monti ai promotori della rivolta. Nella notte del 30 morì un garibaldino negli scontri e 40 furono gli arrestati.
Felice Taddeo riconosciuto come uno dei più importanti capi banda sui monti di Cervinara la notte del 30 novembre 1865 si scontro con i carabinieri reali del 50° fanteria. Cercò la fuga col fratello ed altri dirigendosi dalla località “Ariella”, dove persero la vita il caporale Carlo Del Rivo e De Marco Generoso, al Vallone di San Gennaro. Nuovo scontro a fuoco sul ponte di Ferrari per raggiungere Cardito e cercare la via del Taburno, ma furono accerchiati nelle vicinanze del fiume. I fratelli Taddeo salirono su degli alberi. All’invito di deporre le armi del Capitano Jourdan, Francesco il fratello di Felice disse “ Non scendo. Rimango con lui”. Francesco cadde morto a terraal fuoco dei fucili e dopo poco Felice si fece arrestare arrendendosi. ( Angelo Renna)
Felice Taddeo fu processato e condannato alla pena di morte e l’esecuzione avvenne immediatamente ad Avellino nel Carcere Borbonico.

18 DICEMBRE 1861 : “Fine della Banda La Gala”

Un giorno d’inverno come gli altri. L’abbondante nevicata caduta nei giorni precedenti aveva imbiancato le cime dei monti dei monti di del Partenio e di Avella fino al monte Maio e Fellino. Pianori, gole, valloni e mulattiere erano divenute inaccessibili o percorribili con estrema lentezza e pericolosità. Era, questa, l’occasione aspettata dal Generale Franzini della colonna mobile di Nola per sferrare l’attacco decisivo per sorprendere e distruggere la banda di Cipriano La Gala. Cipriano La Gala aveva accampato l’armata partigiana, su un altipiano denominato “Chiano Maiuro”, (Piano Maggiore), sull’Appennino Campano tra la valle Caudina e l’Agro Nolano, ritenendolo “luogo sicuro rispetto ad altri”. La notevole quantità di boschi mulattiere valloni e anfratti naturali avrebbero permesso una precipitosa fuga dei “briganti” verso l’impenetrabile Appennino e il massiccio del Taburno. Ma quel giorno non andò così. Il 3° battaglione dei bersaglieri comandati dal Maggiore Robaudi, mosse da Nola all’alba per occupare l’altura dal lato Ovest, mentre una compagnia di guardie Nazionali Mobili avrebbe impedito la fuga a sud verso Baiano e Mugnano del Cardinale. Il 18° battaglione del maggiore Melegari mossero da Arpaia, da Cervinara, da Rotondi e da Paolisi per raggiungere le cime dal versante Caudino a Nord. Due compagnie di Guardie Nazionali Mobili avrebbero chiusi altri due passi decisivi: Vallone di Forchia e Cervinara. L’abbondante nevicata chiudeva l’ultima via di fuga verso i monti di Avella e il Partendo ad Est. La neve fu nemica per la fuga ma divenne alleata nel rallentare l’attacco dei Bersaglieri. Solo alle ore 11 del giorno 18, tali forze conversero su piano maggiore, ma la banda se ne era frettolosamente allontanata. “Sparsi qua e la si vedevano sacchi di pasta, recipienti e bottiglie di vino, ceste di carne, utensili di cucina, e fra giacigli e coperte qualche oggetto di vestiario. Ad ogni baracca e capanna si vedevano affisse dentro e fuori immagini di Madonne e di Santi”. La Banda, composta da circa 400 uomini (La leva del mese di novembre ne aveva accresciuto il numero), riuscì a sottrarsi all’accerchiamento e prese la via di San Martino dove non era stato ancora chiuso il passo dalla 2^ compagnia dei Bersaglieri. Ma la via di fuga era segnata, la presenza di militari e la neve la rendevano unica e senza alternativa. Continuarono ad allontanarsi lasciando per strada ogni carico, forse anche le armi, per uscire da quella trappola infernale. Nonostante tutti gli sforzi non potettero sottrarsi allo scontro che avvenne in località”Cornito”, dove inaspettatamente saliva detta 2^ compagnia proveniente da San Martino. Lo scontro fu breve e violentissimo. Sul posto sopraggiunsero le compagnie passate per Piano Maggiore e presero la banda tra due fuochi. Sul piano Cornito morirono in combattimento 31 patrioti. Col loro sacrificio arrestarono le forze Piemontesi permettendo al grosso dell’armata di riorganizzarsi. Il grosso si diresse con Cipriano verso il vallone di Cervinara. Trovarono il paese deserto. Sullo stradale per Montesarchio si imbatterono in un reparto di fanteria comandato dal tenente Negri dal quale vennero assaliti. Riuscirono comunque a sottrarsi allo scontro e riparare in parte nel massiccio del Taburno, in parte nel Partenio. La banda risultava più che decimata. Tra morti e catturati aveva perduto 163 uomini. La stampa e le relazioni degli ufficiali riportarono l’episodio come una disfatta del brigantaggio nolano. Sappiamo bene invece che le bande furono più che efficacemente attive soprattutto negli anni successivi quando arrivarono le considerazioni del Ferrari e le relazioni del Massari sul brigantaggio, nonché le riflessioni del D’Azeglio e la famigerata legge Pica pubblicata il 15 agosto 1863.

Briganti che operavano sui monti di Cervinara e Taburno
dal 1860 al 1865
Cipriano e Giona La Gala di Nola
Giovanni D’Avanzo di Avella
Domenico Papa di Santa Maria a Vico
Nicola Piciocchi
Antonio del Mastro “ O Zappatore” di Avella
Giovanni eTommaso Romano di Limatola
Andrea De Masi “ Miseria” di Bucciano
Carmine Palombo
Domenico il Calabrese
Antonio Pungolo
Francesco Iuliano “ Fasulo” di Cervinara
Felice Taddeo di Cervinara
Cillo Michele
Pasquale Martone
Domenico Bello
Nicola Napoletano alias “Caprariello”di Nola
Luigi Martino di Cautano
Antonio Caruso di Avella
Donato Pizza di Cicciano
Pasquale D’Avanzo di Avella
Benedetto D’Avanzo di Avella
Mustaccio Pietro ( Prima della Banda di Carmine Crocco nel Molfese)
Marro Antonio di Cervinara
De Blasio Domenico di Cervinara
Cillo Giuseppe di Cervinara
Marchese Nicola di Cervinara
Francesco Ciuffi di Cervinara
Saverio Piacente di Cervinara

Altri Fatti della Banda di Cipriano e Giona La Gala
La montagna del Taburno, solenne ed austera per il colore bianco-grigio della pietra calcarea, al tempo di Carlo III di Borbone era diventata nelle ampie spianate tra i 1000 e 1100 metri altimetrici, deposito estivo dei cavalli stalloni dell’esercito. All’improvviso, tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861 se ne scopre l’importanza strategica, compresa com’è nella catena degli Appennini, per i cui i valichi i briganti possono scorrazzare attraverso la Campania, le Puglie e la Basilicata, nel tentativo di riconquistare Napoli ed impedire all’esercito piemontese le comunicazioni tra il Tirreno e l’Adriatico. La fitta abetaia e il terreno accidentato, ben si prestano alla guerriglia. Cipriano La Gala, qui fissa il suo quartiere generale, di qui manovra ben trecento uomini organizzandoli in commandi di non più di dieci persone, in continue sortite contro i territori di Cancello, Nola, Caserta, Limatola, Durazzano, Arpaia, Sant’Agata dei Goti, Cervinara. Obiettivo di Cipriano è la restaurazione di Francesco II sul trono di Napoli; arruola gli uomini pagandoli con il danaro che il comitato centrale borbonico gli invia tramite messi fidati; quando però le sovvenzioni non arrivano più, è costretto a provvedere da sè. Ricorre al sistema delle grassazioni e il 23 maggio 1861 estorce denaro in Avella a Michele Abate, Francesco Biancardi, Aniello d’Avanzo e Martino de Lucia. Nello stesso giorno, sempre in Avella, sequestra un bambino di undici anni Vincenzo d’Avanzo; chiede e ottiene dal padre un riscatto in ragione di L.204, provviste di pasta, sale e tabacco. Il fanciullo si mostra docile; in pochi giorni di prigionia conquista la fiducia dei carcerieri, quindi col pretesto di raccogliere per loro fragole nel bosco, se la dà a gambe. Al processo testimonierà a favore di Cipriano, illustrando la buona indole del brigante, ma il La Gala negherà di averlo mai visto. Un mese dopo, sull’imbrunire assalta 1’Ufficio del Ricevitore della Ferrovia di Cancello, portando via dalla cassa 314 lire e 50 centesimi. Indi procede ad una spedizione punitiva: l’uccisione del caffettiere Ferrara che ha fatto la spia contro di lui. Il brigante Antonio Pipolo lo fa legare ed incita gli altri a sparargli addosso. Dopo qualche esitazione, quattro colpi partono. Il Ferrara rotola su se stesso, mentre riceve il colpo di grazia all’orecchio. Il 27 luglio l’assalto alla corriera sulla strada di Cimitile , si conclude con un tragico bilancio: muoiono Bartolo Cuminelli e Pietro Brocchieri carabinieri di scorta; è ferito il postiglione, derubato il passeggero genovese Preve. Uno dei luogotenenti più fidi, Crescenzo Gravina, il 31 di agosto, in circostanze non chiare, uccide il bersagliere Federico Pellegrino di Pisa. Allo stesso periodo, risale il saccheggio subito dai fratelli Giovanni e Michele Mascolo di Sasso di Roccarainola . Dopo aver subito furto di granaglie ed oggetti vari, Orsola Piscitelli, moglie di Michele, è portata via in montagna per fini turpi e rilasciata solo a seguito delle pressanti richieste di persone dabbene che intercedono per lei. Il Mascolo accusato di meditare la vendetta e di essere disposto a denunziare 14 briganti alle autorità, preso con la forza, è chiamato a discolparsi dinanzi al tribunale dei briganti. Come in un regolare processo, si odono i testimoni a discarico, i testi di accusa, la requisitoria del Pubblico Ministero Piscitelli, cognato dell’accusato. Le imputazioni sono talmente inverosimili che lo stesso Cipriano conviene trattarsi di testimonianze calunniose non rispondenti al vero; i giurati dopo aver votato l’assoluzione più completa, si associano al Presidente nella deplorazione dei rancori personali del Pescitelli verso il congiunto e decidono di indennizzare il Mascolo per i danni subiti, anche e soprattutto in riconoscimento delle munizioni e vettovaglie da lui fornite alla Comitiva. La banda, forte di 85 uomini, il 2 settembre si dirige al villaggio di Paolini di Sant’Agata dei Goti, verso la casa dei fratelli sacerdoti don Giacomo e don Pasquale Viscusi. La nipote Domenica cerca di opporsi alla cattura degli zii, chiede pietà per il vecchio don Giacomo, ma Cipriano infastidito dalle sollecitazioni, fa per trafiggerla con lo stile. Nel trambusto generale, il vecchio prete, sentite le grida della nipote, preferisce consegnarsi ai briganti, dicendosi disposto a pagare il riscatto. Le prime richieste sono avanzate in ragione di 12.000 ducati. Impossibile pagare una somma simile; i contraenti si accordano per 6.000 ducati; i due fratelli sono portati in montagna e dopo una settimana, Pasquale è rimandato a casa per sollecitare il pagamento dell’intera somma. Frattanto un altro prete: Messandro Ruotolo di 30 anni sequestrato in contrada Acquavitara sulla strada tra Arpaia e Arienzo, viene a fare compagnia al Viscusi. Vorrebbe confortarlo, parlare con lui, ma ne è dissuaso dal brigante Antonio Sperone. Giona impaziente, non vuole aspettare oltre, tronca un orecchio al Viscusi; Ruotolo testimone oculare, vede Pasquale Papa, fratello di Domenico addentare l’orecchio e con i filacci di carne tra i denti, lo sente esclamare “capperi che bel sapore hanno gli orecchi dei preti!” Giona infastidito, glielo toglie di bocca; non è il caso di mangiarlo, lo si deve spedire alla famiglia per averne quattrini . Ci si domanderà perchè tanta ferocia verso un sacerdote. Gli è che i briganti detestavano i preti, le cui competenze si estendevano per legge fino a stilare il certificato di buona condotta dei parrocchiani. Essi erano tenuti ad individuare quanti si allontanasse di casa per imprese di brigantaggio politico e a trasmettere le loro relazioni al Sindaco, al Comandante dei Carabinieri, al Comandante della Guardia Nazionale, al Delegato di Polizia. In particolare il giovane Domenico Papa da Santa Maria a Vico, era stato costretto a farsi brigante a causa del sacerdote Giuseppe Mazzone che aveva avuto la poca accortezza di parlare male di lui e del fratello Pasquale con le donne più pettegole del paese: Carmela Nuzzo e Giuseppa Campagnuolo. Aveva loro confidato che quei ladri dei figli di Tep-Tep avevano avuto quello che. si meritavano ed erano stati arrestati nella cupa di Pizzoli. Le donne menarono un gran chiasso per il villaggio e forse riflettendo che il parroco aveva l’abitudine di anticipare un po’ gli eventi, avevano voluto fare un sopralluogo di persona in casa dei Papa, dove trovarono i presunti arrestati, pacificamente raccolti in seno alla famiglia. I giovani montarono in gran collera e senza interporre indugi si recarono a casa di Don Giuseppe, gli fracassarono vetri ed imposte con grosse pietre, aspettando che si affacciasse per farlo fuori. Malauguratamente, Vincenzo, fratello del prete, ritornava dai campi dopo aver falciato l’erba e per un qui pro quo, fu ucciso da Domenico Papa. Di qui la necessità di sottrarsi alla giustizia e farsi davvero brigante. Domenico Papa aveva più volte maledetto il suo triste destino con i nuovi compagni. Ecco perchè la permanenza di don Giacomo Viscusi sul Taburno non si presentava esente da rappresaglie, nonostante il denaro del riscatto arrivasse un po’ per volta. Vero è che D’Avanzo gli rilasciava ricevute di questo genere come la seguente “Noi Giona e Cipriano La Gala dichiariamo aver ricevuto la somma di ducati 1700 dai catturati Pasquale e Giacomo Viscusi e la ragione per cui abbiamo richiesto questo denaro, è di mantenere la truppa a difesa di Francesco II, e che quando Questi sarà ritornato a Napoli, i detti Viscusi riavranno il loro denaro”. Don Giacomo è venuto in uggia ai sequestratori. Basta che Nicola Jannotta detto Rofaniello si lasci sfuggire l’esclamazione – Questo infame carbonaro è ancora vivo -, perchè la violenza esploda senza remore. Gionata si slancia contro il prete, imitato dagli altri. Obbligano il contadino Carmine Atarella a dare in prestito la zappa per scavare un fosso ed in questo ancora vivo, gettano il sacerdote. Quando il maggiore delle Guardie Nazionali Pasquale D’Ambrosio da Arienzo, riesce a seguito di una perlustrazione, ad individuare la tomba dell’ucciso, con raccapriccio si avvede che ha le braccia rivolte in su con le palme aperte, quasi a voler sostenere il peso dei grossi sassi. Nota che un macigno di circa un cantaio e mezzo gli grava sul petto e sulla testa. Al collo le varie ecchimosi e un fazzoletto ben stretto denotano il tentativo di strangolamento. Ormai non rimane che lavare il cadavere, rivestirlo e dargli cristiana sepoltura. Lo sgomento per l’odioso crimine, non ancora si è smorzato tra le genti del Circondano, quando si diffonde notizia più agghiacciante. Il tribunale La Gala ha eseguito sentenza contro una spia sul Taburno, il 4 settembre contro Francesco De Cesare di Laiano, frazione di Sant’Agata dei Goti. Era De Cesare una vecchia conoscenza di Cipriano e Giona, compagno di prigionia nei bagni penali di Castellammare, presso cui i La Gala scontavano la pena a 20 anni di carcere per furto aggravato, a seguito della condanna loro inferta dalla Gran Corte Criminale di Terra di Lavoro il 24 aprile 1855. Durante una rissa, erano volati affronti pesanti e parole grosse tra i tre. Nel 1860 dopo l’evasione da Castellammare, De Cesare non aveva voluto aggregarsi ai fratelli, limitandosi in apparenza a fare il loro manutengolo, in realtà collaborava con la truppa per segnalare i loro movimenti e non aveva mancato di contribuire all’arresto di 17 briganti. I La Gaia a mezzo del portaordini Cosmo Matera, mandano a chiamare De Cesare; si porti subito al Taburno. Invano Cosmo sconsiglia De Cesare dal farlo; per non spaventare la moglie Antonia, il manutengolo dice che starà un po’ fuori per affari. Arrivato a destinazione, riceve accoglienze cordiali da Giona che lo porta da Cipriano; questi sul momento lo abbraccia, poi a bruciapelo gli dice: “Francesco tu devi morire; Giona scannalo”. De Cesare per quanto legato ad un albero, non si rende conto della prossima esecuzione e pensa ad uno scherzo. Trafitto da innumerevoli pugnalate, ha però la forza di imprecare contro i vigliacchi traditori, gente da lui trattata altre volte a calci e schiaffi. Cipriano alla fine, scarica sul corpo martoriato il suo fucile a doppia canna. Molte cose orrende sono successe, così viene a sapere il maggiore D’Ambrosio; preparato al peggio, il giorno dopo sale sul Taburno diretto a contrada Pozzillo, con il capitano dei 18° battaglione bersaglieri. La realtà è tuttavia macabra oltre l’immaginabile. Sul balcone di una casetta di campagna, si vede la testa di Francesco De Cesare con una pipa in bocca; sugli alberi vicini, là una gamba, là un braccio, là altre membra informi. Dovunque biglietti, sotto brani di carne umana “Così si fa alle spie, Questo spetta ai traditori e simili “. Per terra traccia di fuoco appena spento ed ossa umane spolpate; a turno i briganti avevano mangiato un po’ di carne arrostita del De Cesare. Pasquale Papa avrebbe voluto che anche prete Ruotolo ne mangiasse un poco . Fu indi risaputo che un vecchio brigante soprannominato La Vecchierella, il meno coraggioso di tutti, aveva reciso i genitali del De Cesare, se li era sospesi al petto e se ne era andato in giro così per due giorni. Le imprese della banda suscitano lo sdegno del Maggiore Comandante Pinelli e del Maggiore Franzini che mobilitano la Guardia Nazionale di Cervinara in uno stato di allarme permanente, impegnandolo nel duplice incarico di difendere i contadini occupati nel raccolto delle castagne e di osservare gli spostamenti dei La Gaia. Siamo al 29 ottobre. Il Luogotenente Luigi Savoia con 19 militi svolgeva opera di vigilanza, allorché Nunzio Clemente contadino impegnato nei lavori dei campi, un’ora dopo mezzodì, ode uno squillo di tromba. Il suono non gli pare quello militare, lo sente poco rassicurante. Cautamente avanza per vederci chiaro e si imbatte in 8 briganti armati. Di corsa, va a riferire la cosa al luogotenente, ma questi con belle maniere lo esorta a stare calmo; devono essere altre Guardie Nazionali spedite di rincalzo da Cervinara dagli ufficiali superiori, preoccupati di lasciare con piccolo drappello lui, in una località lontana dall’abitato, in una evenienza di attacco. Ha appena terminato di dire così, allorché una scarica di fucileria uccide lui, i militi Antonio Clemente, Agostino Lallo, Serafino Pisanelli, Luigi Saldi, Giovanbattista Teti. Un grido di gioia sopravanza le schioppettate; è Giona che urla “Avanti Cipriano, che abbiamo ucciso il Capitano”. Tutt’intorno spuntano numerosi i briganti; militi e contadini fuggono terrorizzati. Due Guardie Nazionali, tra cui Giovanni Genovese, sono fatte prigioniere . Per un po’ i briganti non fanno parlare di sè. Il 18 novembre Caporal Giona, riprende a fare opera di grassazione. Questa volta ai Paolini di Sant’Agata dei Goti, ai danni dell’agiato proprietario Angelo Soriano; gli sequestra la moglie settantenne Maddalena Russo che rilascia dopo 15 giorni, non senza aver prima intascato il riscatto di 3.000 ducati, pari a L.12.750. I banditi non si fanno scrupolo di derubare i salariati Giuseppe Esposito e Vincenzo Panno, di violentare tre giovani braccianti agricole: le sorelle Lucia e Maddalena De Lucia, Orsola Nuzzo. Cipriano La Gala si indigna per la feroce aggressione, prendendo le distanze da Giona, in quanto come notorio, egli non attenta alle virtù delle fanciulle, nè consente che si offenda l’onore delle famiglie. Ormai la deplorazione non tocca la sensibilità di Giona, che anzi durante il saccheggio del 27 novembre in casa di Equizia e Giuseppe Abate in Cervinara per un valore di 198 lire, fa prigioniero Giuseppe. Lo porta in montagna e gli recide entrambe le orecchie, che poi spedisce alla moglie Chiara Maria Raucci per un riscatto di L. 2,295. Dispone in ginocchio Carmine Clemente, Carmine Iuliano e taglia loro l’orecchio destro. Il contadinello Giovanni Abate di S. Martino Valle Caudina, si inginocchia senza subire imposizione, pronto alla mutilazione. Per il suo gesto piace a Giona che non gli fa del male e lo rimanda a casa, dopo aver ricevuto dalla famiglia 10 cantaia di pane, 6 di maccheroni e 10 prosciutti. Cipriano anzi, gli regala una piastra che Abate non vuole tenere per sè e dà ad un brigante che gli aveva mostrato compassione. Non egualmente fortunato era stato Giuseppe Abate di 47 anni, alto e robusto nella persona; nonostante avesse pagato complessivamente 600 ducati e speso altri 200 in vettovaglie e regali, aveva ricevuto crudele mutilazione di entrambe le orecchie. La banda, alla fine di dicembre ’61, ha ormai i giorni contati, braccata da ogni parte, da Benevento, Caserta e Napoli; si scinde in piccoli groppuscoli per eludere la vigilanza dell’esercito e guadagnare il confine pontificio. Sulla sera del 6 gennaio 1862, si dà per certo che Cipriano si aggira nel territorio dei Mazzoni di Capua, usando come ricovero durante la notte, una casa di Casal di Principe . I carabinieri di Capua ricevono l’ordine di recarsi sul posto ed accerchiare la casa. Il sergente Luigi Monti e il maresciallo Giacomo Gedda lungo il percorso, intimano l’alt a vari uomini a cavallo. Non si ottempera al comando. Gli uomini si danno alla fuga, meno uno che viene riconosciuto nella persona di Angelo Menniello manutengolo e preso come guida, obbligato a dare le indicazioni necessarie per arrivare al rifugio. Nella casina, tutti dormono meno Cipriano che sveglia i suoi ed insieme con Giona e Domenico Papa, si apre un varco tra i militi sparando su di loro ed uccidendo il maresciallo Gedda. Nella sua sortita, è favorito dall’oscurità e dalla pioggia battente; Non fanno a tempo a porsi in salvo Aniello Mercogliano, un ex sequestrato obbligato ad aggregarsi nella banda, in cui è rimasto sei mesi e due guardiani di bufali che hanno concesso l’ospitalità. Arrestati i tre, si procede all’inseguimento e il contadino Carlo Guerra proprietario della masseria Bonito, ammette di aver dato aiuto a tre uomini, di cui uno ferito gravemente alla mano. Nell’impossibilità di fornire bende, ha stracciato una camicia e dato un asino al ferito. Antonio Federico, Ferdinando Santoro, Francesco Gravante, Marcello Petrella e i sacerdoti Vincenzo e Giovanni Caianiello, hanno riconosciuto nel ferito Cipriano La Gaia. I tre raggiungono come si proponevano il confine e si mettono al sicuro. Una fitta rete di omertà li protegge, finchè amici potenti procurano ai La Gaia, a D’Avanzo e Papa un passaporto con tanto di visto dell’ambasciata di Francia per Marsiglia e della legazione di Spagna per Barcellona. Partiti da Civitavecchia sul piroscafo Aunis delle messaggerie imperiali diretti a Marsiglia, fanno scalo a Genova il 10 luglio 1863. Durante l’assenza del capitano, sceso a terra per vidimare le carte di bordo all’Ufficio di Sanità del porto, salgono sul vapore un commissario di polizia italiana, agenti e carabinieri ed arrestano i quattro, in aperta violazione della Convenzione consolare italo-francese. In particolare gli articoli 12 e 13 così recitavano:
“Art. 12 – E convenuto che: i funzionari dell’ordine giudiziario e gli ufficiali ed agenti della dogana non potranno in alcun caso, operare nè visite, nè ricerche a bordo dei legni, senza essere accompagnati dal console o viceconsole della nazione cui quei legni si appartengono.
Art. 13 – Le autorità locali potranno intervenire solo quando i disordini sopravvenuti a bordo dei legni fossero di natura da turbare la tranquillità e l’ordine pubblico a terra o nel porto, o quando una persona del paese, non facente parte dell’equipaggio vi si troverà compromessa.
Il console generale di Francia, informato con molto ritardo dell’incidente diplomatico dal Prefetto di Genova, che pure non aveva alcun diritto a fare arrestare passeggeri in transito, si trova dinanzi al fatto compiuto e li abbandona alla giustizia italiana. Sarà incolpato di eccesso di potere dal ministro francese degli affari esteri, in quanto ottemperando ad una richiesta politica, si era sostituito alla legazione dell’Imperatore in Italia . I La Gala, D’Avanzo e Papa sotto nutrita scorta, vengono condotti al carcere di S. Maria Capua Vetere in attesa di giudizio. La prima seduta del processo, inizia il 24 febbraio 1864 dinanzi alla I Corte d’Assise del Circolo. Componenti: il Presidente On. Filippo Capone deputato al Parlamento Nazionale. Consiglieri: Cav. Mariano Englen e Sig. Vincenzo Napoletano. Supplente Giudice il Sig. Giovanni Ricciardi. Cancelliere il Sig. Domenico De Lorenzo. Procuratore Generale il Sig. Pasquale Giliberti. Assumono le difese per Cipriano La Gala l’Avv. Ottavio Cecaro, per Giona l’Avv. Domenico Tammaro, per Giovanni D’Avanzo l’Avv. Giovanni Paolillo, per Domenico Papa l’Avv. Luigi Garofalo. Così numeroso è il pubblico dei giornalisti e curiosi, che l’aula non li contiene tutti; si rende pertanto indispensabile il trasferimento in una sala più ampia del Quartiere Militare. Tra la folla, molte belle signore puntano i loro occhialini sulla corte e sugli imputati. Eccetto Giona, giallognolo nel colorito e bieco nello sguardo, gli altri hanno un aspetto distinto. Cipriano ora sui trant’anni, ha la dignità di un facoltoso commerciante, D’Avanzo sui trentacinque anni, nei tratti severi del volto ricorda vagamente uno sbirro, Papa sui ventuno anni è un bel giovane. Giona conta ventotto anni. La difesa facilmente ottiene che non siano sentiti come testimoni di accusa Lotti e Campagnuolo, un tempo facenti parte della banda. Gli avvocati vanamente chiedono che l’atto diplomatico d’estradizione sia acquisito agli atti e per ovvie ragioni; si capisce subito che il processo salterebbe in quanto gli imputati sono stati irregolarmente arrestati. Mentre Giona nega ogni attività delittuosa, D’Avanzo ci tiene a precisare che i suoi guai con la giustizia derivano dal servizio da lui reso quale Comandante della gendarmeria ausiliaria di Cervaro. Qui nel 1849 aveva l’incarico di sorvegliare gli attendibili politici che lo sopportavano di malanimo. Venuta l’ora della rivalsa, l’11 novembre 1860 convinsero le Autorità ad operare una visita al suo domicilio. Gli furono sequestrate lettere del Vial, del Peccheneda, del Mazza e da carceriere si trovò carcerato. Liberato nel giugno ’61, invano rivolse una supplica al signor Pizzi e al Farmi per ottenere la reintegrazione sul posto occupato. Al fine di sottrarsi a molte persecuzioni, preferì dal 1° luglio ’61 espatriare e rifugiarsi nello Stato Pontificio. Domenico Papa ricorda le tristi circostanze in cui fu costretto a darsi al brigantaggio, a causa di prete Mazzone che rovinò la sua reputazione di onesto operaio, calunniandolo come ladro. Cipriano invece non nega gli addebiti, ribadisce di aver agito per motivi politici. Intorno a lui si è creata la leggenda di capo spietato e crudele; gli si attribuiscono più colpe di quante egli non se ne riconosca. Chiede perciò di mettere a verbale che molti capibanda scorazzavano sul Taburno nel 1861; il presidente acconsente. “Voglio però dare documento alla giustizia del come i carichi a me apposti debbono forse con più ragione farsi gravare sugli altri numerosi Capibanda che nel tempo della mia latitanza tenevano questi luoghi, e coi quali sempre che mi occorse incontrarmi non mancai di dolermi con loro delle tante grida che dappertutto si levavano per gli atti obbrobriosi ai quali si lasciavano andare, e di esortarli a impedire ogni eccesso. Ho fatto scrivere una lista di tutti i nomi de’ Capibanda mentovati, e che all’uopo consegno nelle mani della giustizia rimettendola a voi. D. Chi ha scritto la lista che ora mi presentate? R.Questa l’ho dettata e fatta scrivere sotto i miei occhi dall’attuale compagno di prigione Giovanni d’Avanzo, come potete anche da lui sapere. Nomino per mio difensore l’Avv. D. Ottavio Cecaro. Segna la croce . Notamento de’ Capibanda e degli altri che domiciliavano ne Monti di Cervinara: 1) Domenico Bello di Cervinara. – 2) Pasquale Martone, id. – 3) Antonio Caruso di Avella. – 4) Domenico il Calabrese. – 5) Antonio Zappatore. – 6) Antonio Pungolo. Capibanda che esistevano tra’ monti e contorni di Cancello. 1) Giuseppe Tiniero di Arienzo – 2) Antonio Pipolo, Napoli o Marigliano – 3) Lisco Fabiano di Marigliano – 4) Donato Pizza dì Cicciano – 5) Felice di Marigliano – 6) Angelo Pascarella alias Angiolillo di Messercola – 7) Luigi Esposito di Marigliano – 8) Francesco Liberato di Camposano. Capibanda che stavano pe’ monti di Taburno. 1) I fratelli Giovanni e Tommaso Romano di Limatola – 2) Il nipote del Generale Bosco a nome Giuseppe – 3) Luciano Martino di Casalduni – 4) Padresanto di Guardia Sanframondi – 5) Cosimo di Cerreto – 6) Giuseppe Gallo di Casalduni – 7) Vincenzo alias Pelorosso di Cerreto – 8) Un Maggiore borbonico che portava 180 persone -.9) Il nipote del generale Vial, il tenente ed altri che venivano da Benevento – 10) Michele Caruso di Benevento . Capibanda de’ dintorni di Nola. 1) Crescenzo Gravina di Palma – 2) Angelo Bianco di Bajano – 3) altro a nome La Vecchia di Monteforte – 4) Pasquale D’Avanzo di Avella – 5) Antonio Del Mastro di Avella – 6) Ginseppe Santaniello della parte di Palma – 7) Benedetto D’Avanzo di Avella o Mugnano. Nelle udienze successive i testimoni si mostrano reticenti, non riconoscono gli imputati, cadono in contraddizioni e il Pubblico Ministero si lamenta di così spiccata perdita di memoria. Alcuni arrivano ad affermare, con suo sommo dispetto, che è proprio così; hanno subito tali violente emozioni, da esserne restati davvero scimuniti. Con involontario umorismo, i contadini derubati richiamano all’attenzione del Presidente che le Guardie Nazionali del Savoia, superstiti all’attacco, non si sono mostrate più eloquenti di loro. C’era o non c’era Cipriano? I cronisti diligentemente annotano che la paura chiude la bocca di tutti e non c e verso di provare la effettiva presenza degli imputati ai fatti. L’avvocato Cecaro su Cipriano ha buon gioco; con la sua eloquenza stringente demolisce le motivazioni di accusa; là dove non si può negare la partecipazione di Cipriano, come nell’uccisione del De Cesare, sostiene che il suo patrocinato può essere accusato di mancanza di aiuto e di assistenza, non di omicidio volontario e premeditato. Inoltre non può neppure configurarsi come il mandante di imprese, giacchè non si è potuto accertare che tutti i commandi cooperassero, spinti dalla stessa mente direttrice verso un medesimo fine. Cipriano è da considerarsi un partigiano del Borbone e basta. Quanto poi alle buone azioni in difesa degli umili, basta far riferimento ai numerosi contadini che spontaneamente hanno voluto fare testimonianza, onde rendere di pubblico dominio le restituzioni di denaro e suppellettili, nonchè il rilascio di molte persone. Il Pubblico Ministero ammette che la difesa è stata eloquentissima ed egli non pensa di emularne la valentia. “… Dunque sarebbero invendicati i militi di S. Martino, i carabinieri, perchè è impossibile sapere quale degli assassini ebbero il funesto privilegio di ucciderli. Per Montesquieu, la legge è come una tela di ragno, i moscerini vi restano presi, i grossi se la scappano. La legge non raggiungerebbe mai i grandi misfattori, poichè invece di dieci si riunirebbero in 50 e quindi sarebbe difficile sapere chi avesse ucciso o derubato nel tale o nel tal altro caso; si commetterebbero i più grandi misfatti raggiungendo la impunità. Ed allora… i nostri poveri codici sarebbero come quelle tele di ragno, fatte solo per prendere i ladruncoli, qualche reo di omicidio volontario e non coloro che si riconoscono in gran numero ed insorgono contro la società, danneggiandola, commettendo i più orrendi misfatti” . La sentenza emessa il 13 marzo 1864, condanna D’Avanzo a venti anni di reclusione, Domenico Papa ai lavori forzati, Cipriano e Giona alla pena di morte. Ma l’Avvocato Cecaro sa di poter tentare ancora una carta. I La Gala dietro suo consiglio, indirizzano a Francesco II una supplica …. e attraverso gli opportuni canali diplomatici, fu fatta opera di persuasione e la condanna a morte dei La Gala nel successivo ricorso alla Cassazione, fu commutata nei lavori forzati a vita. Doveva finire così; gli stessi magistrati sapevano che non avrebbero potuto ottenere di più.

P.S. Allega il Processo dei Fratelli la Gala in PDF che ti ho mandato

Il Brigantaggio sul Partenioultima modifica: 2015-06-04T14:46:21+02:00da
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